giovedì 22 ottobre 2015

Un viaggio in Taxi per Teheran

Un giorno qualsiasi per le strade di Teheran in un taxi guidato dal regista Jafar Panahi, il quale percorre le strade vivaci della città in compagnia di (più o meno strambi) passeggeri che finiscono per discutere dei problemi della società iraniana o semplicemente confidarsi con lui.
Ma sono semplici personaggi o persone comuni ignare di essere all’interno di un film? In diversi momenti del film, infatti, lo spettatore si trova spiazzato e si interroga sulla completa veridicità di quelle immagini ora comiche ora drammatiche ma anche delle parole di quei passeggeri tanto particolari e ognuno con un proprio vissuto alle spalle.
A parte la spigliata nipotina Hana e l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh specializzata in diritti civili, tutti i passeggeri sono attori non professionisti rimasti anonimi, infatti nel film non sono presenti i titoli di coda appunto per motivi di sicurezza.
In maniera del tutto paradossale il regista tratteggia il ritratto della società iraniana di oggi, regalando un film atipico, che certamente lo spettatore comune fa fatica ad accettare vista anche la staticità delle inquadrature fornite per la maggior parte del tempo dalla telecamera fissa sul cruscotto.
Taxi Teheran, a cui è stato conferito l’Orso d’oro a Berlino 2015, è in realtà un film illegale in patria, ma che diventa sinonimo perfetto di specchio sociologico. Il regime iraniano, infatti, ha proibito al regista Panahi non solo di lasciare il suo paese, ma lo ha anche condannato a non poter realizzare qualsiasi genere di film o sceneggiature o rilasciare interviste per 20 anni, pena la detenzione in carcere per sei anni. Eccolo allora sfidare questo divieto e ingegnarsi, inventandosi questo nuovo modo di fare cinema clandestinamente.
La sua pellicola trasuda arte e parla di cinema proprio attraverso la finzione, ma allo stesso tempo è anche un mezzo sociologico per far conoscere meglio un paese ricco di contraddizioni come l’Iran, che si sta trasformando gradualmente nonostante proibizioni e censura.

giovedì 15 ottobre 2015

Una interminabile... ma stupenda attesa

Del primo lungometraggio di Piero Messina, L’attesa, ne hanno parlato in tanti (e bene) all’ultima mostra cinematografica di Venezia, ma non è certamente un film adatto a un pubblico generalista, direi più per un pubblico dai gusti raffinati e molto attento all’uso sapiente che viene fatto della macchina da presa. Ogni dettaglio non è mai lasciato al caso, come non lo sono l’ambientazione o l’attenta fotografia capace di trasportare lo spettatore nella splendida campagna siciliana, aspra e rigogliosa allo stesso tempo. Non stupisce, infatti, scoprire che Messina sia cresciuto professionalmente come assistente alla regia di Paolo Sorrentino (collaborando sia in This Must Be The Place che La Grande Bellezza), da cui sicuramente ereditato un occhio particolare per i titoli iniziali.
Liberamente ispirato a “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello, non servono parole per far capire che si è di fronte a una storia tragica.
Il tutto ha inizio con un funerale e il profondo dolore di Anna, una madre (Juliette Binoche) che, votata a trascorrere le sue giornate in completa solitudine e al buio, non riesce ad accettare la prematura perdita del figlio Giuseppe.
All’improvviso, però, arriva nella sua vita Jeanne (Lou de Laage), la bella fidanzata francese del figlio, ignara di che fine abbia fatto, dopo che è stata invitata a trascorrere qualche giorno di vacanza nella sua casa in Sicilia.
Anna non trova il coraggio di dirle che l’uomo con cui ha voglia di parlare e fare l’amore, è morto. Quella verità, così dura da accettare e impossibile da confessare, finisce egoisticamente per innescare una serie di risposte vaghe ed equivoche. 
I giorni passano inesorabili e le due iniziano a conoscersi meglio, ma l’attesa dell’arrivo di Giuseppe nel giorno di Pasqua diventa quasi surreale, sciogliendosi in un finale pieno di commozione.
L’attesa è un film complesso dal punto di vista narrativo, dal grande impatto visivo, ma perfettamente bilanciato che non osa mai troppo: sin dall’inizio si percepisce che Messina preferisce togliere piuttosto che aggiungere inutili dettagli a un’elaborazione di un lutto davvero sui generis.
Non è eccessivamente lento come molti potrebbero obiettare, ma ogni pausa, coadiuvata da una stupenda colonna sonora (stupendo l’inserimento della canzone Waiting for the miracle di Leonard Cohen), è pensata al momento giusto, caricando ogni momento di grande tensione e poeticità.
I volti dei personaggi dicono molto di più di qualsiasi monologo o dialogo e da questo punto di vista la Binoche è semplicemente superlativa: ogni sua movenza o i suoi primi piani carichi di espressività regalano un colpo al cuore, sapendo emozionare come pochi grandi attori riescono ancora a fare.



P.s.: nel film la Binoche, aiutata dal suo tuttofare Pietro (interpretato dal bravissimo Giorgio Colangeli), si mette ai fornelli e prepara una succulenta cena per la sua ospite e i nuovi amici incontrati al lago. Sono rimasta affascinata dalla preparazione delle tagliatelle con la farina di carrube... se qualcuno sa dove reperirla, lo prego di segnalarmelo!!!