I fatti di cronaca continuano ogni giorno a raccontare la morte di centinaia di clandestini disperati che cercano di iniziare una nuova vita approdando in Italia sull’isola di Lampedusa. Nessuno fino ad ora aveva avuto il coraggio di raccontare attraversoil cinema il dolore che provano migliaia di uomini, donne e bambini stremati che, provenienti da paesi lontanissimi e senza più nulla, accettano mesti di essere visitati, controllati e schedati mentre sono tratti in salvo.
Vincitore dell’Orso d’oro all’ultimo festival internazionale del cinema di Berlino, Fuocoammare di Gianfranco Rosi ha commosso tutti per la delicatezza con cui il regista è stato capace di raccontare le tragedie dietro agli sbarchi dei clandestini a Lampedusa e allo stesso tempo di come scorre la vita degli isolani e dei sopravvissuti.
Lampedusa, infatti, viene raccontata su più livelli: gli stranieri, i lampedusani, Samuele e il dottore locale.
La Lampedusa dei migranti viene descritta dall’avvistamento in mare degli scafi, dove centinaia di persone ammassate rischiano di affondare e vengono tratte in salvo dai militari,dalle visite e la schedatura nei centri di accoglienza, in cui possono cominciare a sperare in un futuro migliore, fino al racconto struggente di alcuni uomini che parlano (anche cantando) di cosa hanno dovuto subire in quel lungo viaggio della speranza.
Ma la Lampedusa dei migranti è fatta anche di sofferenza e soprattutto di morte: il regista non risparmia allo spettatore nemmeno le scene più cruente dei morti per asfissia nelle stive e la sensibilità con cui si sofferma sugli sguardi vitrei di quegli immigrati disidrati o sugli occhi pieni di disperazione e gonfi di lacrime di donne o uomini che hanno appena perso un loro caro in mare lascia davvero spiazzati.
I silenzi e i pianti strazianti sono solo interrotti dai rumori di sottofondo delle voci dei militari, dei motori della motovedette della Guardia Costiera e delle onde del mare.
La Lampedusa degli isolani, invece, si presenta attraverso la quotidianità delle vite di anziani, pescatori e casalinghe che preparano il pranzo e richiedono di far passare le canzoni sulla radio locale, dedicandole ai propri famigliari in mare.
Ma la storia più avvincente è quella di Samuele, un simpatico ragazzino che ama stare in mezzo alla natura selvaggia, giocare con la sua fionda artigianale tirando sassi agli uccelli e ascoltare rapito i racconti del padre pescatore e della nonna durante le giornate di pioggia. Samuele ancora non ama quel mare e riesce a fatica ad abituarsi al suo ondeggiare.
Samuele non incontra mai gli immigrati, ma, a causa del suo occhio “pigro”, che sta lentamente rieducando con l’ausilio di una benda, viene visitato dal dottor Bartolo, unico medico e unico punto di incontro con l’altra faccia dell’isola.
È l’unico infatti a doversi occupare non solo di aiutare i malati più o meno gravi tratti in salvo ma anche di doverne costatare i decessi.
Il suo breve intervento è un pugno allo stomaco perché in pochi fotogrammi è capace di raccontare come la sua routine sia scandita dai bollettini della guardia costiera sull’arrivo incessante di barconi.
Rosi usa la macchina da presa con grande rispetto, in modo sapiente e mai scontato, regalando immagini bellissime senza filtri e intessendo una storia che dovrebbe far riflettere chiunque sul significato di parole come speranza e disperazione.
P.s.: Fuoccomare è il titolo di una canzone, passata alla radio durante il film, che racconta dei bombardamenti del 1943 a Lampedusa, di cui era andato perduto il testo ma non la musica che grazie al film è stata riportata alla vita.
L'amica di Babette
CINEMA E NON SOLO...
sabato 25 giugno 2016
domenica 15 maggio 2016
Lenny Abrahamson sorprende con “Room”
La prima parte del film è ambientata all’interno di “stanza”, l’unico vero mondo conosciuto da Jack, il piccolo protagonista; non si è mai sentito in trappola, grazie a una madre forte e coraggiosa, Joy (chiamata semplicemente “Ma”), che è riuscita a educarlo come se davvero quel luogo così angusto, in cui sono tenuti prigionieri da anni, potesse essere comunque un luogo perfetto semplicemente perché erano insieme.
La realtà, però, è ben diversa e “Ma” lo sa bene. Lei non ha sempre vissuto in “stanza” e vorrebbe tanto tornare nel mondo reale che non è certamente quello racchiuso da quattro pareti luride, così pian piano la rassegnazione di “Ma” lascia spazio alla rabbia e alla voglia di evadere, perché si rende conto che Jack ha il diritto di conoscere quello che c’è davvero di bello all’esterno e che non riuscirà ancora per molto a sopperire alla sua curiosità e alle sue numerose domande.
La verità, però, è difficile da accettare per un bambino di soli cinque anni, convinto che il suo mondo è stato sempre e solo quello e che non ci sia altro all’esterno, ma con difficoltà e tanta paura, il suo coraggio guiderà entrambi verso la libertà.
Così mentre il bambino comincia a crescere, abituandosi ai volti dei nuovi familiari, ai giocattoli e agli ambienti della casa della nonna in cui sono ospitati momentaneamente, Joy subisce un colpo di arresto e sembra come implodere: il sapore della libertà dopo 7 lunghi anni di segregazione e abusi ha un gusto davvero dolce, ma dover riprendere in mano la propria vita non è così semplice come pensava.
È sorprendente il fatto di come il film non ristagni mai nonostante la scena risulti davvero claustrofobica nella prima parte e di come, scegliendo il punto di vista del piccolo Jack, la prospettiva anche delle scene più dure (ad esempio le regolari visite del loro aguzzino Old Nick che continua ad abusare della giovane ragazza) risulti appianata anche per lo spettatore.
Un equilibrio perfetto nella recitazione dosata con maestria dei due protagonisti (anche se il piccolo Jacob Tremblay ha davvero offuscato la bravura di Brie Larson in diversi momenti, specialmente nella scena della fuga quando i suoi occhioni sono sgranati per la meraviglia di poter ammirare il cielo, le nuvole e le chiome degli alberi per la prima volta) e nel racconto, dove vengono toccati numerosi aspetti dell’amore forte tra madre e figlio, dell’uso del tempo e del significato di due concetti dati forse troppo per scontato come felicità e libertà.
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domenica 24 aprile 2016
Aperitiviamo n.2?
Per tornare ai fornelli ho scelto una ricetta davvero semplice da preparare che ho tratto da un film del 1999 di Simon West, La figlia del generale, con John Travolta, Madeleine Stowe, Timothy Hutton, James Woods e James Cromwell. Una pellicola abbastanza cruda che regala diversi colpi di scena e che inaspettatamente convince sino alla fine.
Paul Brenner (Travolta), un poliziotto dai modi un po’ cafoni, deve indagare sulla morte del capitano Elizabeth Campbell, donna molto affascinate e figlia del generale della base in cui è stata trovata morta.
Le indagini lo porteranno a scoperchiare torbide scoperte e un passato ancora più sordido che sembrava ormai rimasto sepolto per sempre.
Davvero ottimo il personaggio interpretato dal Woods, il capitano Robert Moore ovvero psicanalista e amico della vittima, che si ritrova a parlare con Travolta nel bel mezzo della preparazione di una cena a casa sua di teorie sull’abbandono e della fragilità di una donna piena di segreti come Elizabeth.
Delle varie pietanze proposte, sono rimasta affascinata da un particolare pane ripieno appena sfornato dal forno.
In realtà è una ricetta gustosa, fatta con ingredienti semplicissimi, che può essere un’ottima alternativa da preparare per un aperitivo veloce con gli amici, accompagnato da un analcolico o un bicchiere di buon vino bianco.
Il pane ripieno è una pagnotta integrale farcita di gustosissimi ingredienti: filante fontina, prosciutto cotto di Praga, peperoni grigliati e pomodori secchi.
Ingredienti: pagnotta rotonda o parigino da 500 g, 120 g di prosciutto cotto di Praga, 60 g di provola o scamorza affumicata, 30 g di burro e origano.
Procedimento:
1) Tagliare la scamorza a fettine sottili e il prosciutto a striscioline;
2) Incidere il pane con un coltello seghettato (sia orizzontalmente che verticalmente), tagliando delle fette abbastanza larghe e facendo attenzione a non toccare la base del pane;
3) Farcire le varie fette di pane, alternando gli ingredienti preparati in precedenza;
4) Far sciogliere il burro in un tegamino, dopodiché cospargerlo con l’aiuto di un pennello sopra il pane;
5) Spolverare il pane con dell’origano e della scamorza affumicata grattugiata grossolanamente.
6) Ripassare il pane in forno a 180° per circa 10 minuti in modo da rendere filante il formaggio all’interno e sopra.
È ottimo da consumarsi ancora caldo.
P.S.: Io ho scelto l’alternativa più semplice, ma è possibile arricchire la ricetta con numerosi ingredienti come pomodorini, carciofini, verdure grigliate, ecc.
Paul Brenner (Travolta), un poliziotto dai modi un po’ cafoni, deve indagare sulla morte del capitano Elizabeth Campbell, donna molto affascinate e figlia del generale della base in cui è stata trovata morta.
Le indagini lo porteranno a scoperchiare torbide scoperte e un passato ancora più sordido che sembrava ormai rimasto sepolto per sempre.
Davvero ottimo il personaggio interpretato dal Woods, il capitano Robert Moore ovvero psicanalista e amico della vittima, che si ritrova a parlare con Travolta nel bel mezzo della preparazione di una cena a casa sua di teorie sull’abbandono e della fragilità di una donna piena di segreti come Elizabeth.
Delle varie pietanze proposte, sono rimasta affascinata da un particolare pane ripieno appena sfornato dal forno.
In realtà è una ricetta gustosa, fatta con ingredienti semplicissimi, che può essere un’ottima alternativa da preparare per un aperitivo veloce con gli amici, accompagnato da un analcolico o un bicchiere di buon vino bianco.
Il pane ripieno è una pagnotta integrale farcita di gustosissimi ingredienti: filante fontina, prosciutto cotto di Praga, peperoni grigliati e pomodori secchi.
Ingredienti: pagnotta rotonda o parigino da 500 g, 120 g di prosciutto cotto di Praga, 60 g di provola o scamorza affumicata, 30 g di burro e origano.
Procedimento:
1) Tagliare la scamorza a fettine sottili e il prosciutto a striscioline;
2) Incidere il pane con un coltello seghettato (sia orizzontalmente che verticalmente), tagliando delle fette abbastanza larghe e facendo attenzione a non toccare la base del pane;
3) Farcire le varie fette di pane, alternando gli ingredienti preparati in precedenza;
4) Far sciogliere il burro in un tegamino, dopodiché cospargerlo con l’aiuto di un pennello sopra il pane;
5) Spolverare il pane con dell’origano e della scamorza affumicata grattugiata grossolanamente.
6) Ripassare il pane in forno a 180° per circa 10 minuti in modo da rendere filante il formaggio all’interno e sopra.
È ottimo da consumarsi ancora caldo.
P.S.: Io ho scelto l’alternativa più semplice, ma è possibile arricchire la ricetta con numerosi ingredienti come pomodorini, carciofini, verdure grigliate, ecc.
domenica 10 aprile 2016
Il vero giornalismo secondo "Il caso Spotlight"
Oggigiorno quanti brutti telegiornali/giornali siamo costretti a guardare/leggere? Perchè il cuore della notizia ormai sembra ridotto solo a un miraggio nel deserto?
Sono rimasti davvero in pochi i giornalisti in grado di fare il loro lavoro ovvero di portare alla luce tematiche scottanti e notizie importanti per le proprie comunità locali o per l’intera società senza temere di mettere i bastoni tra le ruote a potenti o politicanti.
Anche sul grande schermo da anni mancava un bel film sul vero giornalismo investigativo, come per esempio il magistrale Tutti gli uomini del presidente di Pakula, ma fortunatamente è arrivato Il caso Spotlight.
Tra il 2001 e il 2002 un gruppo di giornalisti della sezione Spotlight del Boston Globe, composta da Walter Robinson (Michael Keaton), Mike Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d'Arcy James), riuscì a portare a galla gli abusi sessuali perpetrati da svariati prelati della Arcidiocesi di Boston, rimasti impuniti dalle autorità e insabbiati dai media e dalla curia per anni.
Il film segue passo dopo passo i lunghi mesi di indagini, ricerche di archivio e interviste con alcune delle vittime ancora in vita (la maggior parte si era suicidata o rimasta uccisa a causa di droga o alcool), precedenti alla pubblicazione di una lunga serie di articoli che smascherarono apertamente la
Chiesa di aver coperto questi atti ignobili e che diedero il coraggio a molte persone di denunciare gli abusi subiti da bambini, che per vergogna avevano preferito tacere.
La cosa che più allarma non è il fatto che il film sia una storia vera (considerato il numero di notizie legate a preti pedofili che ancora oggi vengono a galla in tutto il mondo), ma di come si tratti quasi di una prassi legata a un disturbo sessuale all’interno del clero cattolico.
Il caso Spotlight del regista Thomas McCarthy (noto per il piccolo capolavoro di L'ospite inatteso) ha guadagnato giustamente l’Oscar come miglior film, dimostrando di avere non solo un gran cast (vanno menzionati anche gli attori Liev Schreiber e Stanley Tucci) ma soprattutto una sceneggiatura ben scritta che ha saputo raccontare con rigore un tema davvero spinoso e ancora troppo attuale, che la Chiesa nella figura di Papa Francesco sembra aver finalmente preso coscienza, con la piena volontà di non lasciare impuniti tali atti di perversione.
Sono rimasti davvero in pochi i giornalisti in grado di fare il loro lavoro ovvero di portare alla luce tematiche scottanti e notizie importanti per le proprie comunità locali o per l’intera società senza temere di mettere i bastoni tra le ruote a potenti o politicanti.
Anche sul grande schermo da anni mancava un bel film sul vero giornalismo investigativo, come per esempio il magistrale Tutti gli uomini del presidente di Pakula, ma fortunatamente è arrivato Il caso Spotlight.
Tra il 2001 e il 2002 un gruppo di giornalisti della sezione Spotlight del Boston Globe, composta da Walter Robinson (Michael Keaton), Mike Rezendes (Mark Ruffalo), Sacha Pfeiffer (Rachel McAdams) e Matt Carroll (Brian d'Arcy James), riuscì a portare a galla gli abusi sessuali perpetrati da svariati prelati della Arcidiocesi di Boston, rimasti impuniti dalle autorità e insabbiati dai media e dalla curia per anni.
Il film segue passo dopo passo i lunghi mesi di indagini, ricerche di archivio e interviste con alcune delle vittime ancora in vita (la maggior parte si era suicidata o rimasta uccisa a causa di droga o alcool), precedenti alla pubblicazione di una lunga serie di articoli che smascherarono apertamente la
Chiesa di aver coperto questi atti ignobili e che diedero il coraggio a molte persone di denunciare gli abusi subiti da bambini, che per vergogna avevano preferito tacere.
La cosa che più allarma non è il fatto che il film sia una storia vera (considerato il numero di notizie legate a preti pedofili che ancora oggi vengono a galla in tutto il mondo), ma di come si tratti quasi di una prassi legata a un disturbo sessuale all’interno del clero cattolico.
Il caso Spotlight del regista Thomas McCarthy (noto per il piccolo capolavoro di L'ospite inatteso) ha guadagnato giustamente l’Oscar come miglior film, dimostrando di avere non solo un gran cast (vanno menzionati anche gli attori Liev Schreiber e Stanley Tucci) ma soprattutto una sceneggiatura ben scritta che ha saputo raccontare con rigore un tema davvero spinoso e ancora troppo attuale, che la Chiesa nella figura di Papa Francesco sembra aver finalmente preso coscienza, con la piena volontà di non lasciare impuniti tali atti di perversione.
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sabato 12 marzo 2016
Siamo davvero dei "Perfetti sconosciuti"?
Può un gioco innocente rovinare gli equilibri di una coppia apparentemente stabile o di un’amicizia che dura dai tempi dell’infanzia?
Paolo Genovese con il suo nuovo film Perfetti sconosciuti mette in scena un gioco al massacro che spazzerà via ogni certezza. Un intreccio di storie davvero speciale, che non risente affatto della staticità degli ambienti che ricorda molto il teatro. La pellicola, infatti, si sviluppa prevalentemente intorno a un tavolo e cresce di intensità mano a mano, facendo venire allo scoperto storie e sottostorie dai risvolti infiniti, dove alla fine i migliori si rivelano essere i peggiori in ogni senso.
Un innocente cena fra tre coppie di amici (Marco Giallini, chirurgo plastico di successo, sposato con la psicanalista Kasia Smutniak; Valerio Mastandrea, impiegato infelicemente sposato con Anna Foglietta ed Edoardo Leo, tassista con il pallino del buon affare, novello sposo della veterinaria Alba Rohrwacher) e l’amico single (Giuseppe Battiston) che dovrebbe far finalmente conoscere la sua nuova ragazza, ma che si presenterà da solo.
Per scherzo la padrona di casa (Smutniak) decide che ognuno debba mettere il proprio cellulare sul tavolo e permettere a tutti di entrare nel proprio personale piccolo mondo e, senza alcun filtro, leggere qualsiasi messaggio o chiamata arrivi. Nei tempi moderni il cellulare è ormai diventato il custode di ogni più piccolo segreto… far venire allo scoperto anche un’innocente bugia può scatenare un vero inferno, creando incomprensioni e smascherando falsità.
Un cast davvero perfetto e affiatato che è riuscito a dar vita a una magnifica opera corale, dai ritmi precisi e serrati grazie ai dialoghi pieni di comicità e sarcasmo al punto giusto. Anche se lo schema narrativo non è certamente una novità e già utilizzato per diverse commedie italiane (e straniere come il famoso film francese Cena tra amici), bisogna ammettere che funziona sempre e ancora una volta un semplice momento conviviale può innescare terribili reazioni a catena.
Davvero ottimo il finale, che stupisce ma lascia sicuramente l’amaro in bocca: siamo davvero sicuri di conoscere così bene chi amiamo o chi è nostro amico?
Finalmente un bel film italiano: una tragi-commedia con quel pizzico di cinismo che non guasta per descrivere uno spaccato sociale mai così veritiero ovvero l’importanza che diamo tutti noi ai social e all’uso dello smartphone perdendo la vera possibilità di comunicare e ascoltare chi ci sta accanto.
Paolo Genovese con il suo nuovo film Perfetti sconosciuti mette in scena un gioco al massacro che spazzerà via ogni certezza. Un intreccio di storie davvero speciale, che non risente affatto della staticità degli ambienti che ricorda molto il teatro. La pellicola, infatti, si sviluppa prevalentemente intorno a un tavolo e cresce di intensità mano a mano, facendo venire allo scoperto storie e sottostorie dai risvolti infiniti, dove alla fine i migliori si rivelano essere i peggiori in ogni senso.
Un innocente cena fra tre coppie di amici (Marco Giallini, chirurgo plastico di successo, sposato con la psicanalista Kasia Smutniak; Valerio Mastandrea, impiegato infelicemente sposato con Anna Foglietta ed Edoardo Leo, tassista con il pallino del buon affare, novello sposo della veterinaria Alba Rohrwacher) e l’amico single (Giuseppe Battiston) che dovrebbe far finalmente conoscere la sua nuova ragazza, ma che si presenterà da solo.
Per scherzo la padrona di casa (Smutniak) decide che ognuno debba mettere il proprio cellulare sul tavolo e permettere a tutti di entrare nel proprio personale piccolo mondo e, senza alcun filtro, leggere qualsiasi messaggio o chiamata arrivi. Nei tempi moderni il cellulare è ormai diventato il custode di ogni più piccolo segreto… far venire allo scoperto anche un’innocente bugia può scatenare un vero inferno, creando incomprensioni e smascherando falsità.
Un cast davvero perfetto e affiatato che è riuscito a dar vita a una magnifica opera corale, dai ritmi precisi e serrati grazie ai dialoghi pieni di comicità e sarcasmo al punto giusto. Anche se lo schema narrativo non è certamente una novità e già utilizzato per diverse commedie italiane (e straniere come il famoso film francese Cena tra amici), bisogna ammettere che funziona sempre e ancora una volta un semplice momento conviviale può innescare terribili reazioni a catena.
Davvero ottimo il finale, che stupisce ma lascia sicuramente l’amaro in bocca: siamo davvero sicuri di conoscere così bene chi amiamo o chi è nostro amico?
Finalmente un bel film italiano: una tragi-commedia con quel pizzico di cinismo che non guasta per descrivere uno spaccato sociale mai così veritiero ovvero l’importanza che diamo tutti noi ai social e all’uso dello smartphone perdendo la vera possibilità di comunicare e ascoltare chi ci sta accanto.
domenica 28 febbraio 2016
La perfezione di Carol
Carol, il nuovo film di Todd Haynes tratto dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith ha il pregio (e difetto) di somigliare per molti o troppi versi alla trama di un altro suo gran bel film, Lontano dal paradiso (2002).
Entrambi, infatti, sono ambientati negli anni cinquanta e parlano di una donna della medio/alta borghesia e della difficoltà di poter vivere l’amore, di qualunque natura esso sia, perché l’omosessualità in quell’epoca, così contraddittoria, era ancora vista come un tremendo tabù.
Ma se nell'altro era il marito a vivere la sua attrazione per gli uomini come una patologia da curare, in Carol si racconta l’amore passionale tra due donne, che scoprono di amarsi davvero piano piano.
Therese Belivet (Rooney Mara, che ricorda molto la Hepburn di quegli anni), una giovane commessa, amante della fotografia, si imbatte per caso in una donna matura, elegante e affascinante, Carol Aird (Cate Blanchett, superlativa come sempre) e in un batter d’occhio quella semplice attrazione si trasforma in un amore profondo, intenso e composto.
Non è certo quel genere di film che racconta di quelle famiglie perfette uscite da riviste patinate: Carol, infatti, è una donna che sta divorziando e che è risaputo aver avuto già altre esperienze lesbiche, eppure sembra strano quanto il loro rapporto non venga messo alla gogna dall’intera società ma solo dal marito respinto (Kyle Chandler, che finalmente Hollywood sta riscoprendo anche in film di spessore).
Carol è a dir poco perfetto dal punto di vista tecnico: la sua grande particolarità è che è stato girato in pellicola utilizzando soprattutto luce naturale, ma anche i costumi e il trucco perfetti sono riusciti a regalare una forte autenticità alla storia. Altrettanto curata la scenografia e gli esterni, che spesso finiscono per somigliare a dei quadri di Edward Hopper.
Non è certamente un film politico, ma un semplice racconto melodrammatico di una grande storia d’amore che non fa distinzioni di razza, classe, età e specialmente orientamento sessuale… tema decisamente molto attuale.
Entrambi, infatti, sono ambientati negli anni cinquanta e parlano di una donna della medio/alta borghesia e della difficoltà di poter vivere l’amore, di qualunque natura esso sia, perché l’omosessualità in quell’epoca, così contraddittoria, era ancora vista come un tremendo tabù.
Ma se nell'altro era il marito a vivere la sua attrazione per gli uomini come una patologia da curare, in Carol si racconta l’amore passionale tra due donne, che scoprono di amarsi davvero piano piano.
Therese Belivet (Rooney Mara, che ricorda molto la Hepburn di quegli anni), una giovane commessa, amante della fotografia, si imbatte per caso in una donna matura, elegante e affascinante, Carol Aird (Cate Blanchett, superlativa come sempre) e in un batter d’occhio quella semplice attrazione si trasforma in un amore profondo, intenso e composto.
Non è certo quel genere di film che racconta di quelle famiglie perfette uscite da riviste patinate: Carol, infatti, è una donna che sta divorziando e che è risaputo aver avuto già altre esperienze lesbiche, eppure sembra strano quanto il loro rapporto non venga messo alla gogna dall’intera società ma solo dal marito respinto (Kyle Chandler, che finalmente Hollywood sta riscoprendo anche in film di spessore).
Carol è a dir poco perfetto dal punto di vista tecnico: la sua grande particolarità è che è stato girato in pellicola utilizzando soprattutto luce naturale, ma anche i costumi e il trucco perfetti sono riusciti a regalare una forte autenticità alla storia. Altrettanto curata la scenografia e gli esterni, che spesso finiscono per somigliare a dei quadri di Edward Hopper.
Non è certamente un film politico, ma un semplice racconto melodrammatico di una grande storia d’amore che non fa distinzioni di razza, classe, età e specialmente orientamento sessuale… tema decisamente molto attuale.
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