L’attesa
di andare a vedere questo film è stata ampiamente ripagata,
anche se non è una storia semplice e ti lascia andar via con
tanti pensieri e dubbi.
Venuto
al mondo è innanzitutto una profonda e appassionata storia
d’amore tra due ragazzi ma allo stesso tempo è una storia
sulla maternità e sul significato di essere figli.
Tutto
ha inizio a Sarajevo, durante le Olimpiadi Invernali del 1984, dove,
grazie a Gojko (il talentuoso attore bosniaco, Adnan Haskovic),
estroso poeta e guida per la città, una studentessa italiana,
Gemma (Penelope Cruz) incontra un giovane fotografo americano, Diego
(Emile Hirsch, che inizialmente sembra troppo tirato e artificioso
per poi solo alla fine regalare un'intensità espressiva che
pochi altri attori sono capaci di trasmettere). I due non riescono a
non innamorarsi l'uno dell'altra e proprio lui, con tutta la sua
spensieratezza e a tratti scelleratezza, farà del tutto per
conquistarle il cuore e farla sua per sempre.
Dopo
vari aborti spontanei i due non si danno per vinti e tentano anche
l'inseminazione artificiale, ma nulla: Gemma risulta sterile al 97% e
quindi è impossibile che riesca a dare un figlio al suo amato
Diego.
Fallisce
purtroppo anche il tentativo di adozione a causa del passato
turbolento fatto di droga e abusi di lui e anche la stessa psicologa
(Jane Birkin in una breve ma intensa apparizione) che doveva
valutarli idonei a essere dei bravi genitori è dispiaciuta e
li congeda dicendo proprio che non se lo meritano perché due
ragazzi così buoni non li aveva mai incontrati.
Nonostante
tutto lui non smette di amarla neanche per un secondo; eppure
qualcosa per Gemma è cambiato.
Si
sente inutile e ha paura di perdere l'uomo che ama. Come aveva
svelato lei stessa alla psicologa, l'idea di avere un figlio non era
tanto legata a una forte voglia di maternità quanto all'avere
un “lucchetto di carne” capace di
tenere legato a sé l’uomo che ama veramente.
Gemma
continua a sentirsi difettosa e non può pensare a un futuro
senza figli.
Cosa
fare allora? Lasciarsi? No,
i due provano l'ultima strada rimasta. Decidono di tornare a Sarajevo
in pieno tempo di guerra e, andando a trovare i loro vecchi amici,
tentano di trovare una donna disposta a prestare il proprio ventre
per procreare un figlio loro. Incontrano Aska (Saadet Aksoy), una
giovane e bella musicista disponibile a prestare il suo utero in modo
da accogliere una gravidanza e cedere poi il piccolo nascituro in cambio di soldi. Il senso di colpa legato alle conseguenze di
quella scelta e non finiranno per smantellare i pochi resti
dell'amore che sembrava ancora legare Diego a Gemma. Questa
loro storia, infatti, col tempo diventa una storia di guerra anche a
livello umano.
Grazie
a un gioco continuo di flashback, passati quasi vent'anni, dopo
un'inaspettata telefonata di Gojko, Gemma decide di far ritorno a
Sarajevo in occasione di una mostra fotografica dei tempi
dell'assedio e porta con sé il figlio Pietro (Pietro
Castellitto, molto acerbo ma allo stesso tempo tanto realistico nella
sua recitazione asciutta), ignaro della verità sulla sua
nascita avvenuta in un teatro di guerra ancora in corso. Tornando in
quella città, Gemma viene sopraffatta dai ricordi di un amore
perduto ma mai dimenticato e verrà messa alle strette con
molti segreti taciuti.
Il
finale, che certo non vi svelerò, finisce per proteggere il
destino di questo figlio tanto amato e desiderato da una verità
troppo amara e dura da dover conoscere e con cui convivere. Essere
figli evoca qualcosa di più complicato nel nascere semplicemente
dal ventre di una donna che può anche non diventare
madre di colui che ha generato, perché, dopo tutto, i figli
sono di chi li ama.
Il
regista, Sergio Castellitto (nelle vesti anche di attore,
interpretando il padre adottivo di Pietro), aiutato nella
sceneggiatura dalla stessa scrittrice dell'omonimo romanzo (e
moglie) Margaret Mazzantini (tornata a lavorare al fianco del marito dopo l'ottima prova di Non ti muovere), è riuscito a descrivere senza
troppi sentimentalismi questa storia di amore e odio ma soprattutto
di guerra e pace, fatta di tante sfumature e segreti. Spesso è
inciampato in immagini troppo cariche di retorica e alquanto inutili,
ma non ha certo risparmiato nulla allo spettatore, trasportandolo con
dolore in uno scenario di guerra tanto doloroso. Una guerra rimossa
dalla memoria degli europei, cullati nel loro benessere, ma tenuta
viva dalle persone che l’hanno vissuta.
Come
dice Gojko ci vorrebbe un comico per raccontare la guerra dei
Balcani, uno come Buster Keaton... perché ancora oggi, a
distanza di tanti anni, lo stesso popolo di Sarajevo ancora non
smette di interrogarsi su una guerra tanto atroce “che non ha avuto
né vincitori né vinti ma solo sopravvissuti”.
Strano
a dirsi ma è un film intenso che racconta molto di più
con le parole (a volte quasi troppo belle per essere state messe in
bocca a dei personaggi che in svariati momenti sembrano tanto
perfetti da far ricordare allo spettatore che sono l'invenzione di
una penna audace come quella della Mazzantini) che con le immagini o
la musica.
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