giovedì 13 marzo 2014

12 anni schiavo: Steve McQueen e la potenza della storia americana

Dopo averlo rincorso per settimane sono finalmente riuscita a vedere uno dei film favoriti nella corsa all’ultima edizione degli Oscar ovvero 12 anni schiavo.
Candidato a ben 9 premi, nessuno era convinto che potesse farcela soprattutto visto le altre pellicole in corsa (The Wolf of Wall street, American Hustle e Dallas Buyers Club) e nessuno si aspettava di certo l’incetta di premi che ha fatto Alfonso Cuaròn con il suo Gravity (uno dei primi film di fantascienza a ottenere così tanti riconoscimenti).
Saratoga (New York) 1841. Solomon Northup (un bravissimo e convincente Chiwetel Ejiofor) - violinista di successo, nero e nato uomo libero - venne ingannato e, strappato alla moglie e ai due figlioletti, fu venduto come schiavo. Divenne Brett, un negro fuggito dalla Georgia, che, per i successivi 12 anni, dovette nascondere la sua vera identità e le sue capacità di leggere e scrivere.
Divenuto un “negro” come tutti gli altri, Solomon a poco a poco rinuncia a suon di frustate immeritate alla voglia di ribellarsi e di dire a tutti chi sia veramente. Nonostante i mille soprusi e le ingiuste torture subite dai diversi padroni che lo hanno acquistato come schiavo, decide di voler sopravvivere per non perdere almeno la sua dignità di uomo, anche se nel profondo del suo cuore sente sempre più lontana la possibilità di rivedere i suoi cari.
Soltanto quando incontrerà lungo il suo cammino un umile falegname abolizionista (un irriconoscibile Brad Pitt), che lo aiuterà a cambiare la sua vita e a farlo finalmente tornare a casa, scrivendo una semplice lettera per testimoniare la sua legittima libertà.
Come si evince dai titoli di coda, Solomon combatté poi per far condannare gli uomini che lo trassero in schiavitù senza riuscirci, mentre per tutti gli schiavi afroamericani ci vorranno molti altri anni per ottenere una vera giustizia.


Il film è un adattamento (quasi del tutto) fedele del romanzo autobiografico di Solomon Northup, le cui gesta conquistano lo spettatore soprattutto per il suo silenzio struggente più di molti pianti. È impossibile non restare coinvolti da una storia simile, eppure in alcuni momenti (soprattutto nel finale) questa forte empatia con la vicenda narrata sembra scemare. A tratti, infatti, la pellicola pesa per via della sua lunghezza, considerato anche il gran numero di piani sequenza molti belli ma forse inutili al racconto, che non hanno fatto altro che dilungare la storia inutilmente.
Per quanto riguarda la sceneggiatura di John Ridley (anch’esso vincitore del premio Oscar) mi è sembrato alquanto strano che si fosse scelto un uso smodato di un linguaggio a tratti troppo forbito in bocca ai cosiddetti schiavi non istruiti. L’ho trovata una leggerezza di scrittura e forse anche di traduzione nel doppiaggio piuttosto grave: sarebbe stato più comprensibile notare una differenza di espressione tra Solomon e tutti gli altri schiavi comuni, ma con questo non pretendevo certo di tornare al modo di parlare usato dai personaggi come quello di Mammy in Via col vento.
Per l’ensemble di attori scelti per questo film non si è certo elemosinato in bravura.
La presenza di Michael Fassbender nei panni del diabolico padrone Edwin Epps ha regalato al film quel pizzico di disumanità, perversità e cinismo tale da essere in giusta contrapposizione alla figura più mite e sottomessa di Solomon/Chiwetel Ejiofor. Fassbender, attore feticcio e amico di infanzia del regista, ha saputo dimostrare ancora una volta tutta la sua potenza e bravura di attore (avrebbe meritato anche lui la vincita dell’Oscar se non fosse stato per la performance indimenticabile di Jared Leto nei panni di Rayon in Dallas Buyers Club) come anche la giovanissima Lupita Nyong’o (alla sua prima prova d’attrice in un kolossal di tale portata, che le è valso addirittura l’Oscar come miglior attrice protagonista), la quale ha regalato una toccante interpretazione della schiava Patsey, la favorita di Epps, che arriva a supplicare Solomon di ucciderla perché è stanca della sua vita.
Anche i personaggi secondari, pur apparendo per poco tempo sulla scena, lasciano un piccolo segno nella narrazione così potente e realistica dello schiavismo in America: il detestabile Theophilus Freeman (Paul Giamatti), che per primo venderà Solomon come schiavo al padrone William Ford (Benedict Curmberbatch); il perfido John Tibeats (Paul Dano ai massimi livelli) e l’opportunista Harriet Shaw (Alfre Woodard), dapprima schiava e poi moglie nera di uno schiavista, che ama prendere il tè servita e riverita come una vera signora bianca.
Rispetto a Hunger (2008) e a Shame (2011), dove la potenza e la crudezza delle immagini parlavano da sole, in 12 anni schiavo sembra che il tocco incisivo del cineasta inglese Steve McQueen (dal nome omonimo del grande attore degli anni ’70) sia stato leggermente soffocato dal peso di una simile produzione hollywoodiana. La macchina da presa sembra indugiare in alcuni momenti e non mostrare tutto quasi per timore di prendere troppo di petto la situazione, al contrario di come egli aveva dimostrato di saper fare in passato. Al tempo stesso, quasi per farsi perdonare, vengono preferiti degli struggenti primi piani e delle magnifiche inquadrature a piccoli dettagli che tolgono il fiato.
12 anni schiavo commuove e, anche se non si esce dal cinema in qualche modo scossi psicologicamente (come può succedere vedendo Shame), merita comunque di essere visto anche solo per il sublime e realistico scorcio storico che riesce a emulare grazie alla grande maestria del regista inglese, per la fotografia, per i costumi, per le grandi interpretazioni degli attori e per le magnifiche musiche di Hans Zimmer (struggenti soprattutto i canti intonati durante la raccolta del cotone nei campi).
Sono stata a dir poco prolissa, ma è stato come un fiume di parole in piena...

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